Ai fazzoletti di stoffa
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Ho sempre odiato soffiarmi il naso nei fazzoletti di stoffa. 

Hanno vita breve, eppure non li puoi buttare. Eterno ciclo di lavaggio e attesa. Non puoi aprire un pacchetto senza pensarci, e via un’altro morbidissimo sette veli balsamico a risolvere i tuoi problemi. I fazzoletti di stoffa sono una rottura di palle.

Eppure non ce ne liberiamo, per fortuna. Quel ritaglio di sarta profuma di grembiule d’asilo, di scoperta, di certezza e casa. Quel ritaglio di sarta è irriducibile monito della delicatezza dello stare al mondo. Di quei ritagli bisogna avere cura. Non c’è da litigare con uno strap che mai si richiude, con i tre fazzoletti che escono insieme quando ne vuoi solo uno, cazzo. Solo uno. Quel ritaglio riesci a tirarlo fuori solo quando non ne puoi più. Non lo puoi sprecare, non lo vuoi sprecare. Sai che è lì, sai che comunque, inevitabilmente, sarà sempre e solo tuo. Ritaglio che diventa bisogno.

È sminuirlo chiamarlo carezza; arriva già da prima. È non trovare pace nel letto finché non senti i suoi passi dal corridoio che si avvicinano. Vengono verso di te. Sì, sto dormendo. E allora le sue mani rimboccano, rammendano, respirano. Quel ritaglio è l’attimo prima che le sue dita sfiorino la tua tempia. Dall’impercettibile attaccatura dei capelli, e giù decisa e sicura, scivolo di vita e ventre e terra, a ripercorrere il tempo che passa sulla mia guancia.

Quel ritaglio. Non si spreca, non si nomina, non ci si scherza. Quel ritaglio appartiene a un altro mondo, mio più che mai. E più penso a quanto non sopporti usarlo, più mio nonno mi si disegna davanti. Aveva il mio naso, il nonno. Mi sono sempre chiesta se quel fazzoletto fosse sempre lo stesso, se quei rombi azzurrini che decoravano i bordi fossero sempre gli stessi. Aprire il cassetto dei fazzoletti del nonno resta per me un sogno irrealizzato.

Eppure dev’esserci qualcosa in quei ritagli. C’è una fierezza che emanano. Pregni di storia e valore abitano il nostro sguardo di giorni belli, prima di abitare le nostre tasche. Perché c’è un noi che s’intesse tra i fili di quel ritaglio che trascende generazioni e mode. È parola di seta il suo fazzoletto. È mano che sorregge quando la fronte crolla. È fronte che sorregge, quando la mano non trova. È promessa di vittoria e ritorno. È la montagna di domenica, che diventa sale e respiro nuovo a ogni passo. È quel ciao. È casa quando ti scordi l’indirizzo, tana libera tutti. È ripetizione, ordine, aggiustamento. Misura imperfetta del giorno.

È soffio che diventa suono. Insopportabile, ma suo. È pasta al sugo mentre tutto cambia, e il campanile rintocca il mezzogiorno, da qualche parte nel mondo. È emergenza e pronto intervento: bacio sul cuore alle prime volte della vita. È croce del viandante, del bambino, del messaggero. È parola che rende uomo. È tutto ciò che viene prima, e radica a fondo pericolo e protezione. Indissolubilmente. È tutto ciò che viene prima perché è da quella scomodità che nascono le carezze che contano, le carezze che servono, le carezze che mancano. Le sue. Fatte di seta perché prima erano carta vetrata, e secchi e panni. Pentole e chiacchiere da lavare. Fatte di seta perché alleggeriscano e coprano, secondo necessità.

C’è un sacro tramandare nelle parole di seta. Afone ma chiarissime, come i sogni dei bambini. Non gridano le parole di seta; si stropicciano o si ripiegano, in base all’umore, ma si ripongono lì, dove le posso ritrovare. Sempre. Sanno di soffitta e tempi andati, le parole di seta. Eppure sanno ancora di grembiule d’asilo, di scoperta, di certezza  e casa. Non hanno balsamo, sono fatti più di germi che di stoffa: di velo ce n’è uno, quasi sempre umidiccio.

Eppure diventano balsamo le parole di seta, come un ti amo che apre il petto, e squarcia quell’unico velo che proteggiamo con tutte le forze. Come un ti amo da cercare in tasca, quella sinistra. Di quelli che reggono la fronte, quando le mani non trovano. Il ti amo che cammina in corridoio e prepara la carezza della sera. 

Ho sempre odiato soffiarmi il naso nei fazzoletti di stoffa. Eppure…

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