Il protagonista di questa storia è un reduce della seconda guerra mondiale che, al termine del conflitto, ritornò al suo paesino sperduto in mezzo ai Balcani e… improvvisamente smise di parlare.
Ogni giorno leggeva, scriveva, seguiva i discorsi degli amici al bar, ma non diceva una parola. Né ai medici, né agli amici o familiari.
Gli esami clinici non segnalavano la presenza di alcuna malattia, ma i medici decisero di ricoverarlo in un ospedale per reduci in un altra città, dove rimase trent’anni senza mai interrompere il silenzio.
Un giorno, nel suo reparto, la radio stava trasmettendo un’importante partita di calcio.
La squadra della sua città stava affrontando l’avversario storico.
Quando nel momento cruciale dell’incontro, l’arbitro assegnò un rigore contro la sua squadra, il reduce saltò sulla sedia e fissando l’apparecchio, pronunciò le prime parole da più di 30 anni: “Bestia! Vuoi dare la partita a loro?”
Poi ripiombò in un silenzio che non avrebbe mai più violato.
I medici capirono allora che il reduce non aveva nessun tipo di danno neurologico, quanto piuttosto un trauma così radicato da essere praticamente irremovibile.
Questo episodio (vero!) ci insegna una cosa importante.
La potenza della mente può porci dei limiti assurdi senza motivi “apparenti”.
Molti di noi vivono ogni giorno portandosi dietro piccoli-grandi traumi non elaborati correttamente, che finiscono per bloccarci nel raggiungimento della vita che desideriamo.
Spesso non ce ne rendiamo nemmeno conto.
Tuttavia è possibile anche a distanza di anni, lavorare ai propri traumi e alle conseguenti paure soprattutto se possiedi gli strumenti giusti per farlo.
Ma c’è una cosa ancora più importante di avere gli strumenti giusti. È avere la consapevolezza di se. Avere la consapevolezza che possiamo lavorare su qualcosa, e questa possibilità è un dono.
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