Di quanta terra ha bisogno un uomo?
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Viviamo in tempo che ci rosicchia la terra da sotto i piedi, un tempo mobile, instabile, fatto di acqua, di sogni di carta, di braccia e legna che cercano disperati una riva. È un tempo paradossale che ci chiede continuamente di metterci in cammino, di uscire da noi per incontrare l’altro. Ma chi è l’altro? Non lo sappiamo più. E non lo sappiamo più perché più la zolletta di terra su cui poggiamo sicuri i nostri piedi si sgretola, più puntiamo il dito contro l’altro, il diverso, il colpevole. La grandezza di ciò che abbiamo racchiude una relatività che spesso dimentichiamo. Chi decide cos’è grande? Come si delimita la piccolezza? Siamo inevitabilmente noi a misurare l’inutile sovrappeso dei nostri preconcetti.

Non siamo capaci di accontentarci, procediamo sempre a falcate da centometrista verso un traguardo che non esiste. Ciechi persecutori dell’avere, dell’avere ad ogni costo, scavalchiamo noncuranti la bellezza dell’essere diversi, e di incontrarsi ogni giorno grati di ciò che abbiamo noi, grati di ciò che hanno gli altri.

Non sappiamo più misurare, perché comunque qualsiasi misura non è mai abbastanza. Questa brama di possesso ci rende deboli. Il desiderio di essere comunque di più, sempre di più, ancora di più, non ci lascia godere della fragilità della conquista. E quando non raggiungiamo ciò che crediamo di volere nasce inevitabilmente la frustrazione. Non ci chiediamo mai se desideriamo davvero ciò che stiamo rincorrendo, corriamo e basta, ma verso dove? Non importa, importa solo correre più veloce dell’altro. L’altro.

L’idea della conquista attrae l’uomo da sempre. Invasioni, persecuzioni, corse all’oro, colonizzazioni. Ma di quanta terra ha bisogno un uomo? Tolstoj, ispirato da Erodoto, prova a rispondere raccontando la storia di Pachòm. Pachòm è un contadino con un piccolo appezzamento, che vive in serenità con la moglie lavorando ogni giorno la terra. Tuttavia, se avesse un pezzo di terra in più forse accrescerebbe il suo guadagno. Così compra un primo lotto da aggiungere al proprio possedimento. Si sente meglio, ma si convince in fretta del fatto che potrebbe essere più felice acquistando quei terreni a buon prezzo al di là del fiume. Non fa nemmeno in tempo a comprarli che già ha puntato gli occhi a un terreno ancora più grande, ancora più fertile. Talmente grande che sarà lui a deciderne i confini: potrà infatti ricevere per un prezzo stracciato tutto il terreno che riuscirà a percorrere a piedi in una giornata. Pachòm eccitato inizia a correre delimitando ora dopo ora un perimetro enorme. Ora potrà davvero essere felice, pensa. Invece arriva il tramonto, e Pachòm corre, corre, corre… Corre così tanto che, esausto, crolla a terra morente. Cosa resta di tutta quella terra? Resta un funzionario che scava la fossa di Pachòm. Due metri.

Allora perché corri, se ancora non sai dove andare? Perché gridi terra, se sei in alto mare?

‘Di più’ non vuol dire necessariamente ‘meglio’, per la verità, non vuol dire quasi mai ‘meglio’.

La terra di cui abbiamo bisogno è quella della zolletta di terra che ci si sgretola sotto i piedi, quella che diventa acqua e pianto, quella che accoglie i passi barcollanti dopo la caduta, quella che sostiene la mano che si protende a raccogliere, invece che a incolpare.

Abbiamo bisogno della terra che non si può misurare.

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