Ho cercato di togliere peso
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Penna in mano, sguardo sul foglio bianco. Mente che frulla, lancette che scorrono. Siamo di nuovo seduti alla scrivania, a dare forma—per ora su carta—al nostro futuro. Quanto in là riusciamo a vedere? Quanto cambieranno le nostre idee, e quanto cambieremo noi tra un anno?
Sorrido certe volte, osservando le improvvise epifanie di chi crede di aver inventato qualcosa di nuovo. Scuoto la testa. Certe altre volte sorrido e basta. Capita spesso quando ritrovo attuali più che mai pensieri, testi e idee di tempi più o meno lontani. Pensieri che invece di appesantire un tempo già troppo denso, sottraggono al troppo per rivelare ciò che serve—e servirà.
Visionari, spesso additati come fuori dal proprio tempo, spesso fin troppo dentro al proprio tempo. Comunque la si voglia vedere, il dono di saper andare oltre, di percepire e fiutare cosa sarà domani non si impara. E chi non lo può imparare, almeno lo ascolta.
Una delle letture che non riesce mai a stufarmi, che mi obbliga senza costrizione ad ascoltare, e che ancora oggi ci regala il dono della visione sono Le lezioni americane di Italo Calvino.
1985, io non ero ancora nata, eppure se mi dicessero oggi che quel libro è stato scritto proprio ieri, sicuramente ci crederei. Ci sono una potenza e una nuova possibilità di avvenire che quegli appunti emanano ad ogni lettura, ad ogni tempo diverso in cui si leggono che rendono vibranti le parole contenute. E a me fanno sorridere, ma di un sorriso che un po’ mi rassicura e mi permette di non preoccuparmi troppo delle presunte grandi scoperte fatte di aria.
All’apice della sua carriera, Calvino viene invitato a tenere un ciclo di sei lezioni all’Università di Harvard. Non le terrà mai: morirà un mese prima della partenza per gli Stati Uniti. Di quell’onore, di quell’attesa, del fervore delle settimane precedenti non ci restano che questi appunti. Mica poco, comunque.
Sei proposte per il prossimo millennio, che è il nostro millennio. Cinque e mezzo, diciamo: la sesta, racconterà la moglie, Calvino la voleva concludere solamente una volta giunto in America.
La letteratura, che spesso ingabbia la limitante immagine pubblica di Calvino, non è qui che un pretesto per parlare di vita e futuro.
Sei pilastri, sei valori fondamentali della comunicazione. La comunicazione, nel 1985, come arma e scudo per le incertezze del futuro. Questa per me è visione.

  1. Leggerezza
    La virtù più importante di tutte, poiché solo se rimaniamo leggeri, scarichi di pesi che non ci appartengono, ma che troppo spesso ci carichiamo comunque, possiamo avviarci verso orizzonti più aperti e più nostri. La scienza stessa sembra essere d’accordo: si assottiglia, sintetizza continuamente. Pensate ai neutrini, ai messaggi del DNA, agli impulsi dei neuroni. Nella comunicazione, allo stesso modo, spesso a restare impresse nella mente non sono parole pesanti, ma la loro suggestione, elementi sottili, talvolta impercettibili. E più il mondo si fa pesante, più noi dobbiamo essere in grado di reagire con leggerezza. Ma attenzione: leggerezza non è vaghezza. Paul Valéry lo sottolinea bene, “Bisogna essere leggeri come l’uccello, e non come la piuma”.
  2. Rapidità
    Più tempo risparmiamo, più tempo potremo perdere. La rapidità dev’essere nel pensiero, nella disinvoltura della mente, nella sua mobilità e nella capacità di reagire. Tuttavia, non può esserci solo la rapidità, come sembra spesso affermare il tempo in cui viviamo. Nella vita pratica, il tempo è una ricchezza di cui siamo avari. Una buona comunicazione, invece, dispone del tempo dilatandolo e restringendolo a piacere. Non si tratta di arrivare per primi al traguardo. Non possiamo sempre aspettarci le rapide e fulminee illuminazioni che ci cambiano la vita. Dobbiamo contrappesare questo desiderio di velocità con la bellezza dei pensieri che si sedimentano e maturano.
  3. Esattezza
    Nell’inconsistenza e nell’opacità del mondo, l’unico modo per mantenere la nostra direzione, per capire quale sia, e per rappresentare le sensazioni che percepiamo, è quello di ricercare di dare il giusto peso alle parole. Su questo punto Calvino non transige. Pare convinto che la comunicazione moderna sia affetta ormai da una ‘peste del linguaggio’. Parliamo con automatismi che livellano la moltitudine delle espressioni. Parliamo in modo generico, astratto, anonimo: diluiamo i significati.
  4. Visibilità
    Abbiamo il potere di rendere parola la nostra fantasia, e non lo sappiamo. Viviamo bombardati di immagini e rischiamo di non essere in grado di filtrare quelle che meritano memoria da quelle che ci deconcentrano inutilmente. Dobbiamo imparare a percepire le immagini e a visualizzarle ad occhi chiusi finché non si imprimono nella mente come parole su carta.
  5. Molteplicità
    Una comunicazione chiusa, univoca e non predisposta a dialogare, è una comunicazione sterile. Dobbiamo fare esperienza della molteplicità dell’universo e creare connessioni. Al giorno d’oggi opinioni e idee sono quantomai palesate e condivise: di questa varietà dobbiamo cogliere la forza a cosante monito della relatività di ogni cosa.
  6. Concretezza
    Dalla moltitudine delle cose del mondo dobbiamo essere in grado di operare delle scelte. È una grande responsabilità, eppure una grande bellezza. Ogni volta che abbiamo l’opportunità di scegliere, di raccontare, di condividere, ci distacchiamo dalle infinite possibilità di scelta per estrarne solo una. Fissiamo un momento, una storia, una parola. Ancora una volta non dobbiamo appesantirla: trattiamo le nostre parole come organismi viventi, non come idee irremovibili che soffocano ogni possibilità di potenziale sviluppo.

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