In questi giorni è stato pubblicato per il World Economic Forum un interessante lavoro di Geoff Mulgan, uno dei pionieri dell’innovazione sociale nel quale viene messo in luce il legame intercorrente fra la salute mentale ed il benessere collettivo, che apre scenari e connessioni tra la dimensione personale dell’io e le dinamiche impersonali di gruppi ed organizzazioni.
In tale saggio, sono descritti, con rigore scientifico e grande chiarezza espositiva, il concetto di salute mentale collettiva ed organizzativa e le strategie per inquadrarla, misurarla e incrementarla, con ripercussioni a cascata su ogni settore e classe della nostra complessa società.
Punto di partenza di tale disamina è il danno arrecato dalla pandemia da Covid-19 all’equilibrio mentale dei più fragili e vulnerabili, come bambini, sanitari e in generale i lavoratori che in prima linea hanno fronteggiato, soprattutto nella prima fase di assoluta incertezza, un nemico invisibile apparentemente invincibile, che in pochi mesi è stato capace di mettere in dubbio il primato della scienza e le basi del nostro benessere materiale.
Purtroppo, questo virus ha fatto emergere drammaticamente anche malattie e tendenze cliniche sottovalutate e/o tollerate come effetti collaterali del modello economico e sociale prestativo, quali ansia grave, depressione, disturbo da stress post-traumatico o uso dannoso di alcol e sostanze stupefacenti e psicotrope.
Lo spaccato descritto mette poi a nudo due nodi tutt’ora irrisolti e da gestire: da un lato, l’esistenza di culture tossiche, capaci di togliere agli individui ogni prospettiva, capacità di lettura degli eventi, voglia di pianificazione e reazione.
Dall’altro lato invece, ci sono le forme organizzative disfunzionali, pervasive forze omologatrici, che se da un lato hanno contribuito con le loro routine a massimizzare tempo e risorse, al contempo hanno generato una passiva e meccanica adesione dei consociati o una acquiescenza necessitata dall’essere accettati in taluni ambienti sociali e lavorativi.
Emerge chiaramente quindi come la macrostruttura dell’ambiente sociale finisca per influenzare ed orientare in maniera capillare la vita degli individui e il loro equilibrio psicofisico, una pericolosa contaminazione tra sfera pubblica ed individuale, nella quale però i rapporti di forza sono a sfavore del singolo.
In questo scenario creare un proprio spazio, impermeabile alle dinamiche livellatrici e alle scorie tossiche del modello economico dominante è sicuramente una delle alternative da intraprendere.
Ognuno di noi potrebbe con un atto autenticamente rivoluzionario e creativo, plasmare il proprio microcosmo e dare forza allo “slancio vitale”, ovvero al flusso interno dello sviluppo evolutivo teorizzato dal filosofo francese Bergson.
Bisogna riaffermare di fronte alle logiche meccanicistiche e finalistiche, la capacità di cercare proprie strade in modo creativo, non arrestandosi di fronte agli ostacoli e agli imprevisti.
Liberare gli spazi fisici ed interiori della quotidianità dalle morse assordanti del rumore, dalle mille trivelle che bucano la tela del nostro tempo e che sottraggono energie, oggi è una scelta strategica di vitale importanza, non più procrastinabile.
Costruire uno spazio autenticamente personale, un rifugio interiore, nel quale coltivare ciò che desideriamo, nel quale essere anche vulnerabili e fragili, dove poter ascoltare il flusso disordinato dei pensieri e dare forza alle aspirazioni.
Solo edificando questo fortino possiamo restituire finalmente valore e ospitalità a tutto ciò che ci rende liberi, autentici, unici e che troppo spesso sacrifichiamo in cambio di un comodo ed effimero benessere materiale.
Non muovere mai l’anima senza il corpo, né il corpo senza l’anima, affinché difendendosi l’uno con l’altro, queste due parti mantengano il loro equilibrio e la loro salute.
Platone
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