La ritrovata dignità dell’intelligenza emotiva

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Il termine ‘emozione’, dal latino emovere , che letteralmente significa ‘muovere fuori’, ci riconduce anche all’origine della parola ‘sangue’, emo. 

Lo sapeva bene già Socrate quanto fosse importante per l’uomo questo ‘tirare fuori’, questo smuovere il sangue: l’arte della maieutica nasce e permane nei secoli come necessità di levare di dentro ciò che è vero, ciò che non sappiamo di contenere, eppure che c’è, anche se troppo spesso non lo riusciamo a dire. Mi ha sempre affascinato il naturale affiancamento di questo metodo alla parola ‘arte’: l’arte di far nascere, di far uscire. La stessa arte senza tempo della levatrice. E ce la portiamo dietro senza peso questa lezione socratica, quest’arte, come guida e modello di quello che oggi chiameremmo benessere psicofisico.

Ad ogni reazione individuale per qualcosa che proviene dall’esterno il nostro sangue si muove. Così, se s’insinua in noi la paura, scappiamo: troviamo una forza che non pensavamo nemmeno di avere poiché il sangue confluisce naturalmente verso le gambe. Allo stesso modo quando ci arrabbiamo il nostro sangue pompa verso le terminazioni del corpo, verso le mani: avete presente quel fastidio, quel caldo, quel prurito quando siete in collera? È sangue. Pensate ora alla forma più istintiva e immediata per liberarsi da questo fastidio: una sberla, un pugno, uno scaricare questo calore verso l’esterno. 

Ecco perché dico che Socrate ci aveva visto lungo. Viviamo mediamente 500 emozioni ogni giorno, eppure ne sappiamo controllare una percentuale bassissima. Essere consapevoli di come ci sentiamo, saperlo dire e comunicare è essenziale per la nostra salute. Ci è voluto del tempo, ma finalmente oggi anche nei luoghi di lavoro si dà grande rilievo all’intelligenza emotiva. Ci si è arrivati quando finalmente è stata lasciata crollare l’intoccabilità degli indici QI, ci si è arrivati quando ci si è resi conto che solo il 20% delle persone con un QI elevato raggiungono poi uno status che equivalga all’eccellenza di quest’indice. Gli altri ‘tagliati fuori’ da calcoli rigidi e schematici punteggi sono coloro che hanno invece maggiormente sviluppato l’intelligenza emotiva: quelli che ascoltano e percepiscono, che motivano e auto-motivano, quelli che riescono ad avere controllo, a resistere a situazioni difficili, ma anche a impulsi che fanno scaldare voce e mani. Quelli che si possono anche concedere di essere imperfetti. 

Così dopo una lunga attesa, il World Economic Forum nel 2020 ha inserito proprio l’intelligenza emotiva come una delle 10 soft skill più richieste nel mondo del lavoro. E non è tutto: a contornare un traguardo già così importante si aggiungono alla lista la creatività, la flessibilità cognitiva e la capacità di pensiero critico. Roba da standing ovation. Eppure il povero Gardner lo sostiene da un bel po’: non tutti abbiamo lo stesso tipo di intelligenza—per fortuna. Intelligenze multiple, il diritto di essere diverso, il diritto a sviluppare un talento, il diritto a tempi e modi diversi, e soprattutto la dignità di ogni intelligenza. 

Forse serviva che i tempi si facessero davvero bui per chiedere aiuto alle emozioni, per ricordarci che le abbiamo e che vanno gestite, per noi e per relazionarci con l’altro. Eppure ci aveva aiutato anche la Pixar con Inside Out a metterci in guardia, materializzando i rischi concreti, seppure sotto forma di animazione, dell’ineducazione emotiva. 

Non concederci di tirare fuori quello che sentiamo crea frustrazione, crea un accumulo pericoloso. Può creare numeri elevati, performance quantitative e indici sterili. Può creare un segmento: un inizio e una fine. Pare però che il mondo del lavoro propenda sempre di più per le linee rette, potenzialmente infinite. La qualità diventa elemento imprescindibile della quantità. Ma non rimaniamo troppo retorici: le aziende parlano con i numeri. Qui sta la vera rivoluzione: nella realizzazione che, senza curarci della qualità delle nostre emozioni, senza quell’arte di saper levare, senza la molteplicità che diventa ricchezza non si può sviluppare una conseguente performance quantitativa di livello. 

E come spesso accade si va un po’ al contrario. Si è svegliato dal sonno il mondo del lavoro; le aziende investono nell’intelligenza emotiva, la cercano, la richiedono. Ricordiamoci però che il mondo del lavoro si esaurisce, che le generazioni passano, che i cambiamenti richiedono tempo. Per questo motivo è essenziale che lo spiraglio ora aperto venga colto, curato e sviluppato alla base da chi ha in mano il futuro: il mondo della scuola, che troppo spesso ancora lavora con numeri, carte e penne rosse, accumulando e giudicando senza ricordare e siglando senza osservare. 

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